INTERVISTA: Beppe Chia, CHIALAB, Bologna, 8 Novembre 2010
Beppe Chia nasce nel Campidano (Sardegna) nel 1959. Frequenta la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Cagliari e successivamente trasferitosi a Bologna alla Facoltà di Discipline di Arti, Musica e Spettacolo. Allievo di Tomas Maldonado, Giovanni Anceschi, Umberto Eco, Attilio Marcolli, Omar Calabrese contemporaneamente agli studi si avvicina alla pratica del progetto, alla grafica, all’illustrazione, al fumetto. Nel 1995, consolidando una serie di collaborazioni, dall’Estonia alla Germania, dalla Svizzera a Saletto, da Bologna a Ravenna, fonda a Bologna la Chialab. Un laboratorio con uno spirito progettuale condiviso e un forte impegno etico nel progetto che attualmente dirige come direttore creativo. Lontano dalla grafica pubblicitaria ricerca e crea territori di intervento per il progetto grafico. Si consolida l’editoria scolastica trattata con rigore scientifico e impegno morale, la didattica museale, le mostre, la grafica per ambienti sociali come biblioteche e ospedali. Con Chialab collabora e firma progetti con le case editrice Zanichelli, Einaudi, Mondadori, Giannino Stoppani Edizioni. Disegna l’identità visiva della Biblioteca Sala Borsa di Bologna, della Bim Biblioteca di Imola, Bal mediateca di Carpi, il Mar Museo d’arte di Ravenna. Dal 2008 è responsabile dell’identità visiva del Bologna Children’s Book Fair di Bologna. Dal 1990 svolge l’attività di docente su argomenti legati al progetto grafico presso molti istituti formativi: IED, ISIA, Accademia di Bologna. Attualmente è docente di Metodologia della progettazione all’Isia di Urbino.
A seguito dei suoi differenti percorsi di studio, crede che l’inter di formazione che ha compiuto, dalle lezioni di ingegneria a Cagliari a quelle di Umberto Eco e Tomas Maldonado al Dams di Bologna, abbiano in qualche modo influenzato il suo modo di progettare la comunicazione oggi?
Sicuramente gli studi influenzano o comunque danno delle tracce, delle indicazione, sulle quali si può applicare l’idea di progettazione. È anche vero che gli studi da soli non sono sufficienti, soprattutto in Italia non c’è una formazione ben chiara nei confronti della comunicazione visiva, per cui il mio percorso così articolato e “strano”, tutto sommato non risulta tale, perché non essendoci un’idea chiara di che cos’è il design della comunicazione visiva, chi ha interesse e passione, per questo, tende a formarsi in maniera autonoma. Nel mio caso posso fare riferimento al corso di progettazione ambientale, tenuto all’epoca da Maldonado, ritenendolo il nucleo di tutte quelle suggestioni differenti che caratterizzavano le discipline del mio corso. Il suo approccio al progetto era quello di mettere in relazione discipline, campi, utilizzi e persone molto diverse. Lo scopo del progettista era proprio quello di lavorare nell’ambiente, essendo esso stesso parte dell’ambiente. Penso sia stato proprio questo il corso che mi ha più segnato.
Nonostante il Dams non prevedesse un titolo di studio in progettazione del design della comunicazione lei ha continuato a formarsi autonomamente in quest’ambito. Questo è un dato che fa riflettere. In Italia ancora oggi non esiste una formazione universitaria multidisciplinare nel campo della comunicazione visiva. I piani di studio attuali sono obsoleti e inadeguati.
Lei oggi è un progettista, se così possiamo definirla, come ha costruito la sua professione?
Questo tipo di attività l’ho sempre portata avanti in maniera personale e con ricerche autonome, mai in istituti di formazione. Quello che io cercavo negli istituti era una visione più allargata e teorica di riferimento a quello che poi approfondivo io. Cercare di comprendere dove ci si sta muovendo e quali sono le linee da seguire dal punto di vista astratto. Questa credo sia una risorsa preziosa del mio curriculum, ossia: avere la conoscenza della parte astratta di cosa stai facendo, perché lo stai facendo, e le ricadute progettuali che può avere. Vero è che l’altra parte, quella operativa del “fare”, l’ho dovuta cercare e costruire esternamente alla facoltà . Questo, secondo me, è un grande problema. Ci sono discipline molto teoriche e altre molto pratiche, molto operative. La cosa più interessante è quella di mischiare la consapevolezza che consegue l’esperienza pratica e quella teorica.
Avendo la consapevolezza di avere un bagaglio culturare nella comunicazione visiva, prevalentemente teorico, mentre quello pratico era conseguente all’esperienze fatte, quando ha deciso di fondare uno studio grafico?
Non sono due cose che si sono susseguite, ma sono andate avanti parallelamente, uno ha trovato sfogo all’interno degli istituti di formazione, l’altro è stato portato avanti da me personalmente. Facendo tesoro degli stimoli e gli interessi che avevo allora, l’illustrazione per esempio, sperimentando, ma anche capendo meglio il mondo dell’editoria, entrando in rapporti con illustratori, autori, automaticamente facevo strumento di questi due motori che si alimentavano a vicenda.
Poco fa ha accennato al campo dell’editoria, voi di Chialab definite con la voce “campi” le aree delle quali vi occupate. Oltre all’editoria, c’è ne una che mi interessa approfondire: quella degli “ambienti.”
L’esigenza di occuparvi di questo campo, è nata per avere un offerta di servizi più completa, per soddisfarne la domanda, o per delle competenze particolari del team dello studio?
Avendo un approccio “aperto” al progetto, abbiamo sempre fatto fatica a chiudere un campo, cioè limitare il lavoro solo ad alcuni servizi, e se vogliamo, non averlo fatto è anche un pò il nostro problema. Ma quello che a noi dello studio interessa, non è una verticalità del lavoro ma mettere in relazione cose e campi, in cui la comunicazione visiva si esercita, che tendenzialmente sono visti separatamente. Ora il lavoro è cambiato molto, si ragiona fondamentalmente con il sistema di una regia complessiva della comunicazione visiva. Perciò se abbiamo un’azienda per la quale siamo consulenti e coordinatori della comunicazione visiva, tendenzialmente cureremo tutta la sua immagine, dal sito alla brochure, dal logo allo stand.
Prendiamo come riferimenti ad hoc per la mia analisi, alcuni progetti dei quali vi occupate come Chialab: Fiera del libro per ragazzi a Bologna. Vista l’importanza della fase di ricerca e analisi che precede la progettazione degli spazi pubblici, la vostra regia prevede che ci sia una figura professionale che abbia gli strumenti necessari per occuparsene, se no, come viene gestito il lavoro?
C’è una prima analisi “il nocciolo duro” che viene fatta tutti insieme. Si definisce per grandi linee la strategia, le linee guida fondamentali da seguire, quali il marchio, i colori, i caratteri, il trattamento dell’iconografia, le sensazioni che si vogliono trasmettere. Ci sono dei settori, in cui delle persone si occupano con particolare attenzione dell’allestimento. In altri, si possono creare gruppi variabili a seconda della complessità. In seguito, la persona che si occupa dell’allestimento, dovrà confrontarsi con il responsabile della strategia che a sua volta si assicurerà che tutto sia coordinato. Ognuno cura una parte del progetto, a seconda delle proprie competenze, indipendentemente, ma sempre facendo riferimento alla team strategy. La cosa interessante è che in questo sistema non si creano barriere, ma un continuo scambio di materiali, informazioni e soluzioni. C’è sia il riferimento alla strategia complessiva, che alla migrazione di soluzioni che sono nate all’interno di problematiche di allestimento piuttosto che in altre aree. Un esempio concreto: nel caso della Sala Borsa di Bologna, l’organizzazione dei contenuti all’interno del sito internet corrisponde all’organizzazione topologica dello spazio fisico. Quando si fa la fila a teatro per il biglietto d’entrata, si notano dei segnali, che probabilmente ritroviamo identici, sulla sua pagina web, al momento dell’acquisto on line.
È previsto che si effettui una verifica che confermi i comportamenti e le funzionabilità che avevate ipotizzato in fase di progettuale?
La verifica sull’efficienza della comunicazione visiva è una cosa complicatissima e lascia un pò il tempo che trova. Ci sono degli strumenti, ma sono di misurazione della performance. In un ambiente gli elementi sono così tanti che è difficile decidere se la funzionabilità è buona o no. Può avvenire che ci sia un feedback negativo e ci comunichino che, per ipotesi, - “Tutti si perdono!” - In alcuni casi magari può essere voluto e allora lì diventa un merito e non un demerito. Nell’esempio della Sala Borsa, pensiamo sia uno spazio da scoprire e da “abitare”, non è un aereoporto in cui si corre. Porto questo esempio perché i modelli dominanti della segnaletica sono quegli spazi tipo gli aereoporti, ma anche i supermercati e gli ospedali. Sono ambienti in cui si deve avere la massima efficienza per trovarne il contenuto. Non si può perdere l’aereo, quindi si corre, da un gate all’altro si devono impiegare tot minuti, perciò tutta la segnaletica è decisamente orientata alla performance efficiente in termini di tempo. Probabilmente questo non è il comportamento necessario dentro una biblioteca, in quest’ultimo caso l’efficienza di trovare un titolo potrebbe essere leggeremente messa da parte, rispetto al gusto di trovare dei titoli che stavano vicini a quello che cercavamo. Stiamo facendo un percorso in degli ambienti sul sapere, delle volte capita di cercare un testo in uno scaffale e di trovarne altri interessanti. Avere un’informazione precisa che ci porta direttamente all’obiettivo rendendoci “ciechi”, in un certo senso, a tutto quello che c’è intorno, potrebbe risultare una strategia fallimentare per una biblioteca, sicuramente è vincente per un aereoporto.
Siamo partiti dalla verifica dell’efficienza della comunicazione visiva, passando per i suoi obbiettivi, ed in base a questi arrivare a stabilire le strategie più adatte.
Tornando alle verifiche e alla gestione delle relazioni tra chi comunica il feedback, che siano i committenti o gli utenti, e voi, chi si occupa di prendere visione e intervenire con i provvedimenti più risolutivi?
Alla fine dei progetti hai sempre dei feedback che vengono forniti da noi, i più severi critici, dal cliente e dagli utenti. Starà a noi risolverli nel modo più appropriato.
In riferimento ai progetti di spazio pubblico ha notato se si riscontrano maggiori problematiche, e se sì, di che tipo?
Vengono sempre riscontrati dei problemi, altrimenti avremmo finito di lavorare, ma si analizzano e si cerca di evitarli in fasi successive. Negli allestimenti hai sempre un responso immediato, l’esempio più banale può essere quello che gli utenti non trovino il bagno, come accadde nella Sala Borsa. I commessi si lamentano perché i clienti chiedono dov’è il bagno e non dove sono i libri. Questo era un problema.
Quindi lei quanta attenzione ritiene prestino i designer alla funzionabilità di un’icona che indica dove si trova la toilette, rispetto a quella prestata a disegnarla nel modo più originale e innovativo?
Il design dell’ambiente e del paesaggio è poco praticato, perché richiede l’interazione di discipline molto diverse. L’architetto progetta benissimo le strutture, le stanze e quant’altro, ma magari non fa nessuna riflessione su quali sono i flussi e le informazioni da dare per fruire quegli spazi. Spesso in seguito viene chiamato il grafico che deve risolvere questi problemi che non sono problemi di comunicazione visiva.
Ed il grafico in queste situazioni è in grado di risolverli?
Cerca di esserlo, in alcuni casi riesce, in altri no, non è semplice. E’ molto sottile tutto quanto ed è forse la cosa che lo rende anche divertente. Se nella Sala Borsa i bagni siano occultati è un progetto, non è un caso, altrimenti tutti quelli che passano in centro a Bologna e hanno bisogno del bagno andrebbero lì. Questo è un dato. Vista la richiesta di evitare che la biblioteca si convertisse in un bagno pubblico, abbiamo deciso di occultarne le indicazioni, o quantomeno non installarle all’entrata.
Fin’ora abbiamo parlato del suo lavoro e portato esempi di progetti di comunicazione visiva in spazi pubblici realizzati in Italia. Lei che è designer e docente, avrà i suoi contatti e le sue fonti internazionali.
Nota una differenza di qualità sostanziale in progetti di questo tipo all’estero, e quale problema pensa abbia l’Italia per non essere ancora a quei livelli?
C’è una differenza di qualità. In Italia ancora si fatica a riconoscere il valore di questo tipo di design, per il quale si viene chiamati ad intervenire, alla fine del processo, per risolvere tutti i problemi che l’architetto o l’urbanista non ha risolto. Mentre invece esistono casi come quello di “CityId”, uno studio di associati, di Bristol, all’interno del quale lavorano assieme architetti, urbanisti e ingegneri per creare una mappa della città. E’ chiaro che se si ha la possibilità di fare le proprie riflessioni sull’aspetto visivo del paesaggio urbano insieme ad altre figure professionali coinvolte nel lavoro, il risultato è di certo migliore.
Pensa che la poca considerazione e la sottovalutazione della responsabilità che ha la comunicazione visiva nello spazio pubblico, in Italia, sia sufficiente a giustificare una metedologia dei designer consapevolmente obsoleta ma più facile e rapida?
Non si può isolare questo ragionamento dal contesto urbano in cui ci si trova. Se a Napoli ti perdi, lo metti in conto, perché è un contesto nel quale è plausibile accada, se succede a Lugano è diverso. Il contesto urbano determina anche come ci si comporta in certi ambienti, non è un problema estetico, è l’analizzare l’area urbana nella quale si inserisce un progetto, il problema estetico è un problema inesistente sostanzialmente in questi casi.
Per risolvere un problema bisogna conoscerlo prima di affrontarlo. Ci sono riviste e pagine web di ricerca sulla comunicazione visiva nelle quali troviamo veri e propri osservatori internazionali sul design.
Gli argomenti che trovano più spazio in Italia, negli ultimi anni, trattano il “progetto sostenibile”. Dedicando maggior attenzione ai materiali, le tecniche e i processi di lavoro che sono sempre più agevolati dalle nuove tecnologie. Si trascurano i problemi della metodologia, che è alla base del progetto e ne determina la funzionalità.
Facciamo riferimento sempre alla comunicazione visiva nello spazio pubblico: perchè non si affrontano questi problemi e si privilegiano altre tendenze nuove, alle quali però non siamo pronti?
Quando si parla di ambiente, se ne parla in generale, non solo nel senso del rispetto ecologico che si ha per esso. Si dà una lettura parziale della problematica, perché è più comodo frammentare le pratiche e i saperi. In un progetto, le competenze professionali individuali garantiscono la riuscita di una parte del lavoro, lasciandone irrisolte altre. Si ricorre così all’intervento di altre figure professionali che dovranno riparare agli errori commessi già nella pianificazione iniziale. Il problema non si affronta, perché abbiamo ereditato dei saperi che sono totalmente inadatti alla complessità. Solamente quando il progetto te lo impone, lo affronti a posteriori e non strategicamente. Noi cerchiamo di farlo ma è difficile. Per ritornare al discorso sulla formazione, che è fondamentale, Thomas Maldonado progettò un dipartimento, al DAMS di Bologna, che si sarebbe dovuto chiamare “Dipartimento di Progettazione Ambientale”. All’interno aveva previsto di inserire materie di discipline differenti e apparentemente scollegate. Alcune di queste erano, a mia memoria, ergonomia, medicina del lavoro, cybernetica, informatica, botanica, urbanistica, architettura. Questo dipartimento non passò, ma neanche minimamente!
Secondo lei, quali sono state le ragioni?
Instituire un corso di quel tipo avrebbe intaccato tutta una serie di strutture accademiche già avviate. “Botanica” che c’entra “botanica”? “Medicina del lavoro”? “Ergonomia”? Sono tutte materie che afferiscono a Medicina e non possono essere trattate dentro una facoltà di progettazione. Invece secondo me sono fondamentali e così altre materie elencate prima, ma non è così, rimangono appartenenti a le loro facoltà, questa è la situazione. È il progetto alla fine che aggrega attorno a sé le competenze necessarie che servono per svilupparlo. In certi casi sei già “attrezzato”, in altri ci si preoccupa di far intervenire altri professionisti. Negli studi di architettura ci sono più collaboratori che si occupano di pratiche giuridiche, che architetti. È così complessa la prassi burocratica che è diventata indispensabile la presenza di queste figure. Quindi si innescano due meccanismi: aggregare competenze a seconda delle necessità, e “ri-mappare” le competenze del personale, perché la formazione non le ha previste.
Come docente, non sente l’esigenza di rivedere la didattica, aggiornare i piani di studio, le metodologie di progettazione, creando figure competenti in grado di affrontare i progetti dei quali abbiamo parlato finora?
Attualmente, vedo gli studenti che sono molto più avanti di quello che studiano. La situazione dei piani di studio è abbastanza statica, ma lo è non per motivi di volontà ma per cause strutturali. Nelle facoltà, i sistemi si mordono la coda, si pianifica un piano di studi cinque anni prima che cominci ad essere applicato. Cinque anni fa non c’erano le tecnologie di oggi, non c’era l’iPad, non c’erano gli iPhone e gli Smartphone diffusi come lo sono oggi. Si sta mettendo in discussione tutto il mercato dell’editoria e il libro come oggetto. Il problema è delle istituzioni che vanno avanti come macchine a vapore dell’ottocento. Per quanto riguarda gli allestimenti ci troviamo indietro rispetto alle tecnologie. Prima era impensabile che la tecnologia degli schermi a led potesse abbattere i costi dei supporti della segnaletica più comune. Adesso permettono tutto un’altro tipo di comunicazione, interattiva e in continuo mutamento. Rivestire un grattacielo con del materiale adesivo o con un sistema a led, oggi è possibile. In Italia l’evoluzione delle tecniche di comunicazione non è stata seguita parallelamente da quella dei metodi e delle strategie delle figure professionali che se ne occupano, tantomeno è stata rivista la competenza delle stesse. L’architetto progetta il grattacielo, il grafico o l’illustratore ne progetta la comunicazione visiva da applicarci, gli allestitori monteranno i supporti e così via. Tutte le figure che ruotano intorno alla realizzazione di un progetto di comunicazione, come questo appena citato, verranno chiamate ad intervenire in momenti diversi e probabilmente non comunicheranno mai tra loro. Si ritorna ad un problema di strategia.
In conclusione, lei ha idea di cosa possa contribuire a migliorare la qualità della metodologia della comunicazione visiva nello spazio pubblico?
Le conclusioni non ci sono, perché ci sono da fare delle riflessioni. Non bisogna cercare un punto d’arrivo, piuttosto bisogna essere molto aperti ed informati. In sostanza io vedo due cose possibili relative alla progettazione della comunicazione visiva: o si verticalizza il lavoro e ci si occupa di un solo settore della comunicazione, mettendo da parte tutto il resto, specializzandosi e fornendo un servizio di alto livello qualitativo; o si cerca di avere una consapevolezza il più possibile espansa, di quello che è il tuo progetto, in che contesto sta agendo. Entrambi i casi sono possibili, l’importante è che sia una scelta cosciente, questo vale sempre.
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