Per rispondere al quesito del capitolo precedente facciamo riferimento ad un libro: La speranza progettuale e a chi lo scrisse Tomàs Maldonado. Tomàs Maldonado, è noto sia come industrial designer che come studioso nel campo dell’educazione, della semiotica e della progettazione, ma soprattutto come teorico e docente. Insegnò e fu a lungo direttore nella scuola di Ulm, in Germania dal 1954 al 1966. Durante la sua direzione l’obiettivo fu quello di sviluppare un’impostazione linguistico-informativa piuttosto che plastico-formalista: la scuola di Ulm, oltre a curare l’aspetto tecnico-scientifico del disegno, svolse infatti ricerca nel campo della comunicazione visuale e scritta. È stato tra i primi promotori del metodo interdisciplinare in Italia, durante l’insegnamento all’università di Bologna dal 1976 al 1984. Maldonado riteneva che il mestiere del progettista fosse quello di un intellettuale tecnico, che ha un importante ruolo sociale, da cui derivano delle responsabilità nei confronti della collettività. Da qui la necessità di una forte impronta etica e di una base culturale ampia e solida. Nel suo libro La speranza progettuale. Ambiente e società, apparso per la prima volta nel Nuovo Politecnico nel 1970, “Tomàs Maldonado ha denunciato la degradazione del nostro ambiente fisico, cioè del maltrattamento che si continua a commettere contro i tre componenti basilari del nostro sistema biotico: l’acqua, l’aria, il suolo. Il problema però non veniva affrontato isolatamente. L’originalità dell’approccio di Maldonado era costituita soprattutto dal contesto in cui egli svolgeva il suo discorso critico. Le cause dell’usura ambientale venivano esaminate dall’autore in stretta relazione con temi quali il nichilismo politico e culturale del dissenso giovanile, le fughe utopistiche e conformiste della progettazione ambientale, il grado di autonomia degli intellettuali nella società tardo-capitalista e, infine, il rapporto tra progettazione e rivoluzione. Con grande chiarezza, Maldonado ha dimostrato, in queste pagine, che in ogni tentativo di agire contro le cause e gli effetti della nostra situazione ambientale si deve sempre incominciare col recuperare la speranza progettuale, cioè col ricostruire su nuove basi la nostra fiducia nella funzione rivoluzionaria della razionalità applicata”. La progettazione, scrive Maldonado, “è il nesso più solido che unisce l’uomo alla realtà ed alla storia” Riteneva l’uomo inscindibile dal contesto, nel quale si rispecchiava la coerenza, l’etica e l’identità dell’individuo.
La capacità di progettare, come la capacità di fare appartengono entrambe all’universo operativo dell’uomo e sta a lui adottare il comportamento più costruttivo per cambiare ciò che non funziona. Secondo Buckminster Fuller, citato nel libro, sul nostro pianeta si troverebbe tutto e per tutti; durante una conferenza alla San Josè State College disse: “quando l’uomo riuscirà a fare tanto di più con tanto meno, da potersi occupare degli altri ad un livello più elevato, allora non ci saranno motivi seri di guerra. Negli anni a venire, dato che l’uomo riuscirà in questo, non ci saranno motivi seri di guerra”.
Egli vedeva nella progettazione il modello e lo strumento attraverso il quale si sarebbe potuta condurre una “Rivoluzione impostata sui termini della progettazione”. Essa mirerebbe ad un cambiamento radicale delle strutture tecniche di sfruttamento, di utilizzazione e di distribuzione delle risorse naturali e di tutte le altre strutture di ambientazione umana dipendenti, più o meno direttamente, da quelle risorse. Lo scopo dei rivoluzionari professionisti è’ solitamente quello di prendere il potere, non quello di fare le rivoluzioni: i loro discorsi sono espressivi, gestuali, ipnotici, con linguaggi-effetto, non operativi, non progettuali; “i rivoltosi di tutti i tempi amano le rivolte più che il mondo a cui esse potrebbero dare origine”. Prendere il potere dovrebbe essere letto per il suo aspetto propositivo piuttosto che per quello governativo. Assumere un ruolo di potere implica al tempo stesso assumersi dei riconoscimenti e delle responsabilità, essere il referente in caso di successo ed insuccesso. In futuro la progettazione dovrebbe assumersi la responsabilità di trasformare in reale ciò che oggi è a appena virtuale. In questo modo, essa diverrebbe il fattore-guida della rivoluzione, anzi, essa stessa sarebbe la rivoluzione. Viene spontaneo porgersi delle domande, ossia quali siano in quest’ambito i requisiti necessari per trasformare la progettazione in rivoluzione? Quali sono le strutture di potere, esistenti o future, che devono delegare ai progettisti la responsabilità di mutare radicalmente tutte le strutture tecniche dell’ambiente umano, in un operazione a scala planetaria? E’ chiaro che per Buckminster Fuller la progettazione verrebbe a risolvere i problemi che la politica ha lasciato irrisolti per diversi anni, o meglio sostituirebbe la politica che, lascia intendere, diverrà obsoleta; ad oggi, nonostante la crisi che ha investito molti paesi del mondo occidentale e orientale, la politica continua, nelle sue differenti forme e nei suoi differenti sistemi strutturali-gerarchici, a governare i paesi del mondo generando, soprattutto in momenti difficili come quelli che stiamo vivendo, conflitti, e separazioni economiche, sociali e culturali. Scrive Maldonado “il tipico fare senza progetto è il gioco, il tipico progettare senza fare è l’utopia”, entrambi, il gioco e l’utopia, sono da intendersi in tale contesto come attività libere e spontanee, sono caratterizzati dalla gratuità ed entrambi sono “esercitazioni preparatorie”: il gioco per il fare, l’utopia per il progettare; l’utopia ha però una componente in piu’ che al gioco manca, ed è la speranza. Questa componente non va interpretata come il pretesto per giustificare l’idea di progettare qualcosa di irrealizzabile, distante dalla realtà e promuovere un pensiero astratto e lontano dalla pratica, piuttosto come un incentivo che ci spinge a pensare al di là delle nostre possibilità e fare il meglio che possiamo. Pensare in un mondo migliore fa bene ai nostri processi mentali, la speranza in quello che facciamo, seppur in scala ridotta, può contribuire ad una qualità della vita sempre migliore ed influenza il nostro metodo di operare, stimolandoci a produrre per noi e per gli altri qualcosa che faccia la differenza in termini di ottimizzazione e soddisfazione, con responsabilità, verso questi, più elevata. Si può accettare, come principio, l’idea che le condizioni di esistenza umana possano essere trasformate dall’attività progettuale, ma non come processo forzato, pianificato e prematuro rispetto al livello socio-culturale di base. La rivoluzione condotta dalla progettazione dovrebbe essere il risultato sia del coraggio sociale e politico che dell’immaginazione tecnica, sia di quello che il sociologo C. Wright Mills ha chiamato “l’immaginazione sociologica”.
Quanto scritto in precedenza può sembrare distante al tema della progettazione visiva e più vicino ai temi sociali e politici. Pensiamo che quando ci viene commissionato un progetto dobbiamo rispondere ad una necessità, quello che produciamo sarà destinato a degli utenti di numero e contesti diversi e dovremmo tenere conto delle conseguenze del nostro lavoro. Dovremo rispondere a dei bisogni, più o meno importanti, con un risultato funzionale che soddisfi la domanda, ricercando, analizzando e lavorando a contatto con altre figure, su spazi fisici e virtuali differenti, senza impedimenti che non siano di origine naturale, strutturale o pratici. Trovarci a progettare in un paese governato da una dittatura o da una repubblica democratica potrebbe rivelarsi determinante sulle nostre metodologie progettuali e vincolante sul risultato finale. L’approccio con il quale intraprendiamo il percorso verso l’obiettivo da raggiungere determinerà non solo il risultato finale di ciò che produciamo, ma anche la leggibilità in relazione alla società alla quale è destinato. Progettare qualcosa in relazione con lo spazio pubblico e la pubblica utilità è inscindibile dall’ambiente che ci circonda e dal contesto socio-culturale e politico. Se pensiamo che separare queste componenti sia possibile nel campo della progettazione visiva, possiamo dire di progettare con gli occhi chiusi.
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